Due scosse di terremoto alle 6 e 11 minuti del mattino. Un terremoto violento, 25 aprile del 2015 e il Tetto del Mondo crollò. Ottomila morti.
Noi ricordiamo le immagini degli alpinisti travolti dalle valanghe sull’Everest. Ma dimentichiamo il paese, la sua gente.
Il Nepal non si è rialzato. E il mondo sembra non avere né memoria, né pietà. L’India, da cinque mesi, ha imposto un embargo non ufficiale sui carburanti. È una rappresaglia decisa dopo l’approvazione della nuova costituzione nepalese che, secondo New Delhi, viola i diritti delle minoranze di origine indiana. A Kathmandu non circolano auto private, per pochi litri di benzina si fanno code di tre giorni. Dall’India arrivava il 90% dei beni importati dal Nepal: oggi questo commercio è crollato al 5%. I nepalesi, costretti a cucinare e riscaldarsi con la legna, sono allo stremo.
È passato un anno da quel 25 aprile, quando la terra ha cominciato a tremare provocando uno dei terremoti più devastanti della storia in tutta l’aerea himalayana. Sono morte circa ottomila persone, i senzatetto non si contano. Le più colpite sono state le zone rurali a sud-est di Lamjung, ma anche la capitale non è stata risparmiata. I principali monumenti storici di Kathmandu, patrimonio dell’umanità, sono andati completamente distrutti e i pochi rimasti sono quasi tutti inagibili e pericolanti.
Oggi camminare a Thamel, centro storico della capitale, fa un certo effetto. Il sisma ha lasciato voragini ancora aperte. Le macerie non sono state rimosse. I volti della gente appaiono disperati e rassegnati. Non c’è elettricità per almeno sedici ore al giorno. Il turismo, una delle poche risorse del paese, è quasi scomparso. Gli aerei in partenza dall’aeroporto Tribhuvan di Kathmandu hanno solo qualche ora di autonomia. Devono fare scalo a Delhi per fare rifornimento.
La capitale è assediata dalle tendopoli create dalle organizzazioni internazionali. È gente fuggita dalle campagne: hanno perso tutto, sono in “attesa”, forse vi rimarranno per sempre. E vivere da profughi ai margini della città è difficile. In inverno il freddo è immenso, d’estate invece arriva il monsone e gli accampamenti diventano un acquitrino. Gli aiuti umanitari arrivano col contagocce.
Voglio darmi una speranza: la forza del popolo della montagna. I nepalesi possono contare solo su di loro per risorgere.